IL TRIBUNALE
   Deliberando in camera di consiglio sull'istanza  di  Quiadar  Aziz,
 nato  a  Tetovan  (Marocco), avanzata ai sensi dell'art. 7, comma 12-
 ter  del  d.l.  30  dicembre   1989,   n.   416   (convertito,   con
 modificazioni,  dalla  legge  28  febbraio  1990,  n.  39),  aggiunto
 dall'art. 8, primo comma, del  d.l.  14  giugno  1993,  n.  187,  ha
 pronunciato la seguente ordinanza.
                             O S S E R V A
    Il   richiedente  e'  stato  condannato  con  sentenza  di  questo
 tribunale in data 30 giugno 1993 (non definitiva) alla pena  di  anni
 uno  mesi  otto di reclusione e lire 4 milioni di multa, per il reato
 di detenzione ai fini di spaccio di sostanza stupefacente.
    Per tale reato Quiadar Aziz - tuttora detenuto - veniva  arrestato
 il  29  dicembre  1992  e  sottoposto  alla  misura  coercitiva della
 custodia in carcere. In data 20 giugno 1993 lo stesso  presentava  la
 richiesta  di  essere  rilasciato ed espulso dallo Stato italiano, ai
 sensi della normativa  indicata  in  premessa.  Si  disponeva  quindi
 l'acquisizione del passaporto del Quiadar, documento che risultava in
 corso di validita'.
    Ritiene  quindi  il  collegio  la  necessita'  di  dover sollevare
 d'ufficio la questione della legittimita' costituzionale dell'art. 7,
 comma 12- ter, del d.l. 30 dicembre 1989, n.  416  (convertito,  con
 modificazioni,  dalla  legge  28  febbraio  1990,  n.  39),  aggiunto
 dall'art. 8, primo comma, del d.l. 14 giugno 1993, n. 187, in quanto
 la predetta normativa si prospetta in contrasto con  gli  artt.  3/1,
 13/2,  27/3  e 97 della Costituzione, questione che, per i motivi che
 saranno di seguito prospettati, non appare manifestamente infondata.
    La   rilevanza   inoltre   della   questione    di    legittimita'
 costituzionale  risulta chiaramente sussistente, essendo la normativa
 indicata proprio l'oggetto della decisione del presente procedimento.
    Venendo dunque ad affrontare le varie censure di costituzionalita'
 prospettate,' dalla lettura dell'eccepita normativa, in primo  luogo,
 appare  evidente il contrasto con il combinato disposto degli artt. 3
 e 13, secondo comma, della Costituzione. Del tutto  irragionevole  ed
 immotivata   risulta  la  disparita'  di  trattamento  del  cittadino
 italiano rispetto allo straniero,  in  materia  di  esecuzione  della
 custodia cautelare in carcere. La norma in esame di fatto attribuisce
 una  particolare condizione di privilegio agli stranieri sottoposti a
 custodia cautelare, permettendo che gli stessi, su propria  personale
 determinazione,  possano sottrarsi al regime carcerario, chiedendo in
 alternativa di  essere  espulsi  dallo  Stato.  Tale  violazione  del
 principio  di  uguaglianza appare tanto piu' rilevante se si analizza
 l'ampia gamma di gravi ipotesi delittuose per le quali  lo  straniero
 e'  autorizzato  a  sottrarsi  volontariamente  alla misura cautelare
 della custodia in carcere, trovando la normativa in questione il solo
 limite fissato per i delitti indicati nell'art. 275, terzo comma, del
 c.p.p.
    L'inosservanza  del  principio di uguaglianza e' dunque quanto mai
 evidente nelle ipotesi criminose commesse in concorso  dal  cittadino
 italiano  e  dallo straniero. In applicazione infatti della normativa
 indicata, mentre per lo straniero sarebbe in ogni  momento  possibile
 ottenere  il  rilascio  dal carcere (e la conseguente espulsione), al
 cittadino invece sarebbe preclusa qualsiasi analoga  possibilita'  di
 scarcerazione,  pur  essendo  entrambi  imputati  (o indagati) per la
 medesima condotta delittuosa.
   Inoltre non puo' certo sostenersi ragionevolmente che il  principio
 di  uguaglianza  sia  stato  soddisfatto dalle limitazioni imposte al
 rilascio dello  straniero  assoggettato  alla  custodia  in  carcere,
 individuate   dalla  norma  in  esame  nelle  "inderogabili  esigenze
 processuali" ovvero nelle gravi ragioni personali di salute  o  gravi
 pericoli  per  la  sicurezza e l'incolumita' in conseguenza di eventi
 bellici  o  di  epidemie.  Tali   preclusioni   infatti   -   fondate
 sull'esigenza  di  assicurare  il  regolare  proseguimento  dell'iter
 processuale e sulla necessita' di salvaguardare l'incolumita'  fisica
 dello straniero da espellere - non sono quindi informate al principio
 di  eguaglianza  e  non  giustificano  dunque  il  differente (e piu'
 favorevole) regime che si stabilisce per il solo straniero sottoposto
 alla custodia cautelare.
    Con  riferimento  alla  seconda  censura  di  incostituzionalita',
 relativa  all'art.  27,  terzo  comma,  della  Costituzione,  occorre
 osservare che la normativa denunciata appare violare -  sia  pure  in
 astratto, in quanto nella fattispecie concreta il richiedente Quiadar
 Aziz  e'  stato  condannato  con  sentenza non ancora definitiva - il
 principio  della  funzione   rieducativa   della   sanzione   penale.
 L'espulsione  dello  straniero  preclude  di fatto la possibilita' di
 eseguire  la  pena  irrogata,  rendendo  del  tutto  inattuabile   la
 principale   finalita'   della   punizione  del  condannato.  Qualora
 intervenisse  infatti  una  condanna   definitiva   dello   straniero
 (superiore  al limite di tre anni di reclusione, previsti dalla norma
 censurata), successivamente alla sua espulsione dello Stato,  sarebbe
 completamente  svilita  la  stessa  ratio  della  sanzione penale, in
 quanto  non  sempre  (e  non   facilmente)   puo'   essere   ottenuta
 l'estradizione dello straniero condannato.
    Su  tali  considerazioni  in  ordine  all'inutilita'  concreta  di
 proseguire il processo penale (una volta che lo  straniero  e'  stato
 rimpatriato)   si   innesta   l'ultima  questione  di  illegittimita'
 costituzionale, relativa all'art. 97 della  Costituzione.  Del  tutto
 irragionevole    risulta   infatti   l'articolo   del   decreto-legge
 denunciato, nella parte in cui prevede l'obbligo  (costituzionalmente
 sancito)    di    proseguire    il    procedimento    penale    anche
 nell'impossibilita' di fatto  di  dare  attuazione  alla  (eventuale)
 condanna. Appare dunque evidente la violazione del principio del buon
 andamento   della   pubblica   amministrazione,   frustrato   proprio
 dall'impossibilita' (o anche solo dall'estrema  difficolta',  qualora
 si  ritenesse  sussistente  la  residua  possibilita'  di  richiedere
 l'estradizione dello straniero,  condannato  ad  oltre  tre  anni  di
 reclusione)   di   dare   esecuzione  all'atto  definitivo  dell'iter
 processuale, cioe' proprio alla (eventuale) sentenza di condanna. Ne'
 al riguardo puo' sostenersi che la sospensione degli  effetti  penali
 della  sentenza  siano  giustificati  da  una  favorevole prognosi di
 ravvedimento del condannato (in analogia a quanto previsto  dall'art.
 163  del  c.p.),  non  essendo  affidato al giudice alcun giudizio di
 merito in tal senso, ma dovendosi limitare l'autorita' giudiziaria ad
 un  semplice  accertamento delle condizioni normative previste per il
 rilascio e l'espulsione dello straniero. In sostanza quindi  tutti  i
 procedimenti  penali,  rientranti nell'ambito applicativo della norma
 eccepita, si trasformerebbero in inutili  attivita'  giurisdizionali,
 prive di fatto di qualsiasi concreta attuazione.
    Ritiene il tribunale, per i motivi esposti, di sollevare questione
 di  legittimita'  costituzionale,  non  potendo  il  giudizio  essere
 definito  indipendentemente   dalla   risoluzione   delle   questioni
 prospettate  e, per l'effetto, dispone l'immediata trasmissione degli
 atti alla Corte costituzionale e  dichiara  sospeso  il  giudizio  in
 corso.